SIMMETRIA, PRIMA ANCORA DI EMPATIA


Empatia è una tra le parole che più viene utilizzata quando si parla di sentimenti, di ascolto, di relazione di aiuto, di relazione tout court. Tale uso, che a volte sfocia nell’abuso, rischia di svuotare di significato il termine e di banalizzare il concetto ad esso sotteso. In alcuni casi, inoltre, empatia viene intesa come premessa alla relazione, invece che come esito della stessa o,comunque, come condizione necessaria affinché la relazione possa svilupparsi secondo le intenzioni e le mete dei partecipanti.
Si parla di empatia, come già accennato, il più delle volte in merito alle relazioni di aiuto ed affettive. Si tratta, perciò, di rapporti che presentano un elevato grado di significatività emotiva e cognitiva per chi vi è coinvolto. Vale molto ciò che si pensa e si sente, insomma. Che sia tra counselor e cliente, medico e paziente, insegnante e alunno, colleghi di lavoro, leadership e team, cliente e venditore. In queste circostanze, l’empatia è causa/effetto della sospensione del giudizio su pensieri/convinzioni/comportamenti che accompagnano (che di fatto la rendono possibile) la comunicazione. A questo punto viene da chiedersi su cosa vada a poggiarsi questa sospensione: si tratta di un’attitudine personale, di strategia, di una capacità acquisita, di un po’ di tutto ciò messo insieme? Certamente si sospende il giudizio tanto più agevolmente quanto più sono chiari e coinvolgenti gli obiettivi della relazione, ossia gli interessi per cui i protagonisti hanno iniziato a comunicare tra loro.
A questa condizione, che di fatto costituisce una premessa allo sviluppo dell’empatia, si aggiungono specifici accorgimenti linguistici che permettono la elaborazione di una cornice relazionale libera da valutazioni sia su di sé che sull’interlocutore. O,  e già è una buona cosa, in cui critiche e svalutazioni, se proprio ci devono essere, risultano circoscritte a specifici elementi, particolari atteggiamenti, più che investire le personalità ed i caratteri nella loro totalità. Si tratta, insomma, di produrre relazioni simmetriche, prima ancora che empatiche.
La simmetria, dunque, quale premessa all’empatia o, in alcune circostanze, come suo valido sostituto. E’ pur vero che il linguaggio presenta svariate trappole: ambiguità, sinonimie, polisemie … A queste si aggiungono specifiche parole, o particolari espressioni, che ostacolano la costruzione di simmetria relazionale, in quanto portatrici di valutazioni e critiche, dirette o indirette. Si va dai classici oppositivi ma e però fino al purtroppo, così frequenti nel linguaggio quotidiano da essere diventati, ormai, dei veri e propri tic linguistici. Sono termini che generano ambiguità e contrapposizioni concettuali, fenomeni tanto più intensi quanto più aumento il livello di coinvolgimento emotivo e cognitivo nella relazione. Diventa, perciò, urgente liberare il linguaggio specialistico/professionale da tali asperità linguistiche. Tale impegno è tanto più necessario quanto più la comunicazione professionale si riferisca ad una relazione di aiuto o, comunque, significativa.
Facciamo alcuni esempi, ipotizzando per ognuno uno specifico contesto relazionale:
1) “ Capisco che tu non voglio parlarmene, ma solo se mi dici cosa è successo potrò aiutarti” (psicologo – cliente/ operatore sociale -utente );
2) “ Il compito che ti ho assegnato è difficile, ma se ti impegni ci riuscirai “ (insegnante-alunno/  team leader – elemento del gruppo/ coach – atleta);
3) “ Capisco le sue esigenze, purtroppo non posso aiutarla” ( venditore-cliente);
4) “Ti capisco, ma devi tenere in considerazione anche le esigenze degli altri” (psicologo – cliente/ operatore sociale –utente / team leader – elemento del gruppo).
In ognuna di queste espressioni, il ma, il però ed il purtroppo esprimono un giudizio critico su un segmento della frase, anche se ciò accade senza che se  ne abbia  intenzione. Ciò non significa necessariamente che ci sia effettivamente un’assenza di valutazione, bensì che non è intenzionale lasciare che la critica emerga.
Eppure, attraverso quelle “paroline”, è proprio ciò che accade.
Nel primo esempio, viene valutato negativamente la chiusura del cliente/utente, a cui, di fatto, viene inviato un messaggio del tipo “ E’ sbagliato che tu non mi dica cosa ti sia accaduto perché non dicendomelo non posso svolgere il mio lavoro “, ergo “ Il mio lavoro è più importante di quello che ti è accaduto “, ovvero “ La mia frustrazione (per non poter svolgere il mio lavoro) viene prima dei tuoi sentimenti,emozioni, pensieri “ …
Quel semplice ma indica, in pratica, che il counselor /operatore sociale comunica a partire, in termini analitico-transazionali, da una posizione esistenziale Io + Tu -.
Il secondo esempio evidenzia un insegnante/ coach che, attraverso l’oppositivo, conferma che il  compito assegnato all’alunno/atleta è al di là delle capacità di quest’ultimo, il cui impegno ( non specificato) diventa un obbligo ( un ultimo tentativo, più che altro) invece che una risorsa.
Anche in questa circostanza, la relazione è del tipo Io + / Tu-.
Nel terzo caso, il venditore attribuisce al cliente o esigenze illegittime ( è come se gli stessi dicendo “ Ma cosa vai chiedendo … “) o la propria incapacità a soddisfarle (come a dire “ Tu hai ragione, sono io inadeguato … “).
Il purtroppo, di fatto, sta ad indicare che c’è un difetto, o nelle richieste del cliente (dunque nel cliente) o nelle proprie competenze professionali ( dunque in sé).
In questo caso, la comunicazione assume una direzione o Io +/ Tu – .
Oppure Io – / Tu +.
In un caso o nell’altro, qualcuno subisce un giudizio svalutativo. Nell’ultimo esempio, è come se si dicesse al cliente/utente/ elemento del gruppo:
“ Le tue esigenze possono aspettare … Non valgono quanto quelle degli altri”.
Si conferma, anche in tale espressione, la posizione Io ( in questo caso Noi o Gli Altri) + / Tu -.
Agire sul maperò e purtroppo non è agevole, come non è agevole intervenire sulle proprie abitudini disfunzionali. Il primo passo per muoversi in questa direzione consiste nell’individuare le alternative che il nostro linguaggio ci mette a disposizione, allo scopo di realizzare una comunicazione simmetrica, comunque farcita il meno possibile di valutazioni e svalutazioni, dirette o indirette. Alcune rilevanti opzioni consistono nei cosiddetti connettivi, quali anche sesebbenequantunquepur tuttavia. Si tratta, anche in tal caso, di semplici parole che permettono una fluidità di espressione, dando spazio al proprio pensiero così come a quello altrui. E’ bene tenere conto, comunque, che il più delle volte il passaggio dalla a-simmetria alla simmetria richiede qualcosa in più rispetto alla sola sostituzione dell’oppositivo al connettivo, così come dimostrerebbero già gli esempi poc’anzi utilizzati. E’ necessario, cioè, una riformulazione parziale o totale della frase stessa. Nel primo caso, la simmetria acquista spessore se l’inserimento dell’anche se viene associato ad una rivisitazione linguista e concettuale, che tradurrebbe l’espressione originaria in:
“ Capisco che tu non voglia parlarmene, anche se facendolo mi daresti modo di comprendere quello che tu, ora, stai pensando e provando “.
Riformulare, nel secondo caso, porterebbe ad una frase del tipo:
“ Anche se il compito che ti ho assegnato è difficile, è alla tua portata. Ci riuscirai, impegnandoti “.
Il terzo esempio, attraverso l’utilizzo di connettivi e riformulazione, diverrebbe qualcosa del genere:
“ Capisco le sue esigenze, anche se mi trovo nell’impossibilità di aiutarla in quanto … ( proseguendo con un spiegazione logico-razionale sui motivi del rifiuto) “.
In ultimo: “ Ti capisco, anche se è utile  a te e agli altri prendere in considerazione le esigenze dei tuoi colleghi/ amici/ familiari ecc. “


Risulta alquanto evidente, a questo punto, che trasferirsi da una posizione a-simmetrica ( Io +/ Tu – oppure Io – / Tu + ) ad una simmetrica ( Io / Noi/ Gli altri + / Tu + ) implica una riformulazione non solo linguistica bensì anche emotivo/ cognitiva. La pura applicazione del connettivo, altrimenti, rischierebbe di sfociare in una formula di inutile buonismo. Si tratta, in termini analitico-transazionali, di trasferirsi dai versanti negativi degli Stati dell’Io a quelli positivi. Molto sinteticamente, ciò vuol dire abbandonare la tendenza, alquanto diffusa nella comunicazione odierna, a criticare generalizzando o, al contrario, ad accondiscendere a prescindere ( atteggiamento, a volte, confuso con l’empatia), per attivare, invece, altre risorse: la capacità critica rivolta al particolare, ad esempio, piuttosto che alla globalità della persona. Oppure di essere in grado di manifestare le proprie istanze in considerazione delle esigenze altrui, invece che come alternativa ad esse. Si tratta, dunque, di un percorso in prima istanza linguistico e, subito dopo, emotivo/cognitivo/comportamentale. In estrema sintesi, significa abbandonare una sola e radicata abitudine molto diffusa nelle relazioni, ossia ritenere la comunicazione uno strumento di correzione degli altri oppure della loro aprioristica approvazione social non implica un effettivo coinvolgimento emotivo.

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